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Oliviero Toscani: “La mia vita di uomo assai fortunato scandita dal pensare per immagini” (repubblica.it /10.06.2016)

Postato il 15.07.2016 da write@toscani.com Commenti Commenti disabilitati su Oliviero Toscani: “La mia vita di uomo assai fortunato scandita dal pensare per immagini” (repubblica.it /10.06.2016)

L’infanzia, il collegio a Zurigo, gli scatti sul dolore e la malattia. Il fotografo si racconta: “Trasgredire va bene ma senza lasciarsi imbrigliare”

di ANTONIO GNOLI

PDF: doppia pagina – Repubblica 11.Luglio.2016.pdf (264 Kb)

La prima cosa che dice è di sentirsi un uomo fortunato. Guardo la figura massiccia e tutt’altro che solenne, la sua faccia larga, gioviale a tratti levantina, gli occhiali con la montatura azzurrina, la camicia a quadri di colori leggeri, il bastone in legno di bosso a testa di cavallo e penso che abbia ragione. Oliviero Toscani è stato un uomo fortunato. Ha saputo prendere dalla vita anche quello che non cercava o che non immaginava di trovare mai. Nel bene ovviamente, come sembra suggerire questo suo nuovo libro: Dire, fare baciare” (Rizzoli). Ora che è davanti a me – in un afoso pomeriggio romano sotto un cielo che sembra fare a pugni con la malinconia – sento la sua voce vibrare di concretezza. Le parole di Toscani non volano, sono prepotentemente attaccate alla terra, rasentano il suolo, si fanno largo nella boscaglia dei fatti, divagano nella polvere della vita e mentre si insozzano di tutto questo, sembrano contraddire la sua dichiarata propensione al futuro: “Sono un utopista”, dice, “sono uno che non guarda quasi mai al passato “, aggiunge. E allora penso che il futuro abbia bisogno di ali, di parole impalpabili e, forse, improbabili. È in questo duplice vocabolario che l’esistenza di Toscani si muove, come se parlare di sé significhi nascondere sé. Tecnica cabalistica, verrebbe da commentare. Ed è solo verso la fine, quando la conversazione si è chiusa e i pensieri, anche quelli più subliminari, si sono riannodati che lui dal iPhone tira fuori alcune immagini. Dopo tutto è l’uomo delle immagini. La prima lo ritrae insieme a Andy Warhol. È un giovane Toscani a braccetto con il padre nobile della Pop Art. Toscani, con il suo baffo spiovente, sembra Burt Reynolds. Warhol sembra Warhol.

Che ci facevi lì, in quella foto?
“Era un gioco. Noi due a braccetto. Impettiti, marziali, ironici. Lo avevo vestito da yuppie anni Ottanta. Cravatta regimental compresa. Si divertiva in questo travestimento per lui insolito”.

Tutto era insolito in lui.
“Sembrava sceso da un altro pianeta”.

Tu da dove arrivi?
“Più prosaicamente dalla terra. Ma allora anch’io sembravo un marziano”.

Da noi i marziani fanno una brutta fine.
“Siamo ammalati di novità e quando la novità stanca avanti un altro”.

Sei il sovrano delle novità.
“Da una vita faccio lo stesso mestiere”.

Il fotografo?
“Ecco una parola che mi piace”.

Ti definiscono un creativo?
“Detta così mi sembra un insulto”.

Non volevo offenderti.
“Non ci riusciresti mai. Che barba però con questi creativi!”

Sputi nel piatto dove mangi.
“Ma no, “vieni avanti creativo!” mi verrebbe da dire. La creatività è ciò che non ti aspetti. Ma nel momento in cui ci credi è finita. Dai retta a me: il mondo è pieno di creativi. E di cretini. Hai visto dove siamo giunti?”

Già, dove?
“Sull’orlo di qualcosa di impronunciabile. Non mi rispecchio più in tante cose”.

Magari ti rispecchi in te. Sei narcisista?
“Mi voglio bene, e mi considero la persona più privilegiata che abbia conosciuto”.

Questo è un paese fondato sul privilegio.
“I miei privilegi li ho sudati. Ma ripeto sono una persona fortunata. Lo sono stato fin dalla nascita”.

Dove sei nato?
“A Milano, nel 1942, negli anni più duri per il paese. Eppure, non ho sofferto la fame anche se in giro ce ne era tanta. Sono nato a Porta Garibaldi, in una casa di ringhiera. Mio padre fotoreporter al Corriere della Sera, mia madre sarta”.

Com’era Toscani da bambino?
“Felice, incosciente, pigro”.

Non curioso?
“La mia curiosità era tutta per il cinema e i giochi. La scuola mi faceva orrore. Ero puntualmente rimandato a settembre nelle materie più diverse. Mia madre disperata. Mio padre convinto che qualcosa comunque avrei fatto nella vita. Nel frattempo fui messo in collegio “.

Dove?
“A Paderno del Grappa. Nel collegio degli asini d’Italia. Stavo diventando matto in quel posto di preti. Tutti i giorni a pregare e non capire”.

Cosa volevi fare?
“Volevo iscrivermi a qualche scuola d’arte. Scelsi su suggerimento di alcuni amici quella di Zurigo. Non conoscevo il tedesco e dovevo sostenere un esame di ammissione “.

Come hai fatto?
“Era un esame attitudinale. Lo sostenni. Tornai a casa convinto che non mi avrebbero mai preso. Un mese dopo giunse una lettera in tedesco. Papà la fece tradurre da uno del Corriere. C’era scritto che ero stato ammesso. Fu così che mi liberai della scuola italiana”.

Era così brutta?
“A me fece un effetto pessimo. Passavo più tempo fuori nei corridoi che in classe. Contavo le piastrelle del pavimento e le mattonelle dei muri. Da impazzire”.

Quanto sei rimasto a Zurigo?
“Cinque anni, una scuola magnifica. Dove la manua-lità, anche mentale, risultò importante. Ho imparato a vedere, ho imparato il senso del colore e delle forme. Gli ultimi esponenti della Bauhaus, vennero lì, a spiaggiarsi dopo Berlino e Vienna”.

Com’era Zurigo.
“Un concentrato di Banche e di Dada. Città vivibile percorsa da uno spirito protestante attenuato dal senso degli affari. Ricordo l’imponente figura bronzea di Zwingli, davanti al duomo. La sua lunga veste, lo spadone impugnato e lui sul piedistallo quasi ad ammonire il popolo. A Zurigo mi procurai una motocicletta, con la quale viaggiavo ovunque. Arrivai perfino in Spagna. La prima cosa che mi affascinò di quel paese fu la corrida”.

Mi aspetto che citi Hemingway.
“La tauromachia fu molto più antica. Mi chiedevi del narcisismo. Hai mai visto un toro nell’arena? Immaginalo in tutta la sua forza e bellezza: nero, lucido, muscoloso, furente e davanti c’è uno vestito da donna, con le calzette bianche e le scarpette rosa. Che fa una specie di danzettina. Sono due narcisi. E il mito esige che in qualche modo la morte abbia il suo tributo”.

Cosa ti affascina: il racconto o la lotta?
“Tutte e due. Non vi sarebbe lotta senza racconto. È qualcosa che avviene al limite. Senti il rumore, l’odore, vedi i cavalli, i picadores, l’arena tagliata in due dal sole e la folla, emotivamente coinvolta”.

Teatro della crudeltà.
“Senza Artaud”.

Cos’è la crudeltà?
“Potrei darti dieci versioni e tutte plausibili”.

Comincia con la prima.
“Crudeltà è mancanza di rispetto, anche verso se stessi. Crudeltà è anche un modo di sbattere la verità in faccia all’altro”.

Sei crudele in che senso?
“Non ce l’ho come ossessione. Né patologia. A volte

Loro come reagiscono?
“Alcuni assorbono, altri tentano di giustificare, infine c’è chi piange”.

Tu hai mai pianto?
“Piango raramente. Anche se l’ho fatto recentemente. Ero a Matera per un lavoro. Stanco, provato con le ginocchia a pezzi. Non ce la facevo a camminare: su e giù per il paese. Un tormento. Mi sono seduto su un muretto e ho cominciato a piangere. In quel momento ho deciso di operarmi a tutte e due le ginocchia”.

Ora eccoti qui con un bastone.
“I primi quindici giorni sono stati tremendi. Sono nella fase del decollo”.

Il dolore ti angoscia?
“No, lo sopporto abbastanza bene. Mi angoscia o meglio mi spaventa la malattia. Non riesco neppure a immaginarla “.

Le tue foto non rifiutano la malattia: quelle sull’Aids, i condannati a morte, le anoressiche. Sei un testimone del dolore?
“Intendi quello altrui?”

Intendo quegli stadi in cui si prende coscienza che la vita ha in sé qualcosa di tragico.
“Ma anche la natura può essere tragica e crudele. Anche le religioni. Se entro in una chiesa a volte ho l’impressione di stare in un club sado-maso: crocifissioni, sangue, fruste, sacrifici”.

Sei credente?
“Non lo sono se devo rapportare il mio credo a un Dio. Non c’è un solo Dio, ma numerose presenze divine. Il mio Dio è sempre un altro Dio”.

E la fede?
“Ho fede nella vita, nella mia energia, nella mia voglia, nel mio arrapamento. Sono un ottimista che non conosce la depressione. Per questo non ho mai smesso di fare quello che faccio”.

Mai un dubbio?
“Anzi, direi tanti dubbi. La sola cosa certa per me è stata saper vedere le cose del mondo, lo spazio e chi ci sta dentro. Non credo che questo si impari. Pensare per immagini è una dote. Poi c’è stato mio padre che fu presenza importante”.

Ti ha insegnato il mestiere?
“Allora fare il fotografo per un giornale era considerato un mestiere inferiore. Mio padre se ne è sempre fregato. Mi portava con sé: dai fattacci di cronaca nera al concorso di Miss Italia. Una buona scuola”.

Le tue foto vanno in tutt’altra direzione.
“È un lavoro sull’immagine. Sulla sua potenza”.

E trasgressione?
“Anche ma senza lasciarsene imbrigliare. È pensiero analogico, accosta cose, a volte, impensabili”.

Colpire forte.
“Colpire forte con agilità, tecnica, invenzione”.

Come il tuo amico Mohamed Alì.
“Eravamo buoni conoscenti. Se dico che è stato una leggenda lo banalizzerei”.

Hai paura della mediocrità?
“Mi spaventa come la malattia. È tempo perso”.

La mediocrità mette al riparo dagli insuccessi?
“I piccoli successi sono mediocri, i grandi fallimenti sono epici. Mi schiero per i magnifici fallimenti. In tema di mediocrità potrei stilarti una lista infinita. Ai primi posti metterei politici e addetti al marketing”.

Cos’hanno che non va?
“Hanno troppe idee”.

Tu vivi di idee.
“Sono un situazionista. Non ho idee. Chi cerca idee non ne ha. Nessun artista ha idee. Semmai possiede una visione del mondo. Francis Bacon o Jackson Pollock non avevano idee, guardavano il mondo e lo traducevano nel loro stile”.

Hai una definizione dello stile?
” È qualcosa che non si può fissare. Di talmente individuale che nel momento in cui provi a fermarlo scappa via. È il talento che hai dentro e che una volta esternato prende una forma sorprendente. Lo stile è come l’arte, non ha nulla a che vedere con l’etica, né con la morale. Nel punto più smagliante lo stile è una forma di crudeltà. Starei per dire di morte annunciata ” .

A chi pensi?
“Penso a Michelangelo. Ha uno stile? Certo. Guarda la sua Pietà. C’è niente di più crudele di un figlio morto tra le braccia di una madre?”

Anche le cose mediocri hanno un certo stile.
“D’accordo, ma chissenefrega”.

Guardi mai la televisione?
“Se è accesa sono capace di starci difronte a bocca aperta come ipnotizzato. Perciò non la tengo in casa, ma relegata in un punto poco accessibile. Ma poi mi chiedo cos’è che mi attrae di essa. Capisco che dentro quella scatola c’è un’intelligenza incredibile applicata al mostruoso. La televisione ha reso la mediocrità mostruosa. È il passato che non passa”.

Qual è il tuo rapporto con il passato?
“Non guardo quasi mai nello specchietto retrovisore. Le cose che si allontanano sono lontane. Il mio problema non è la tecnica o il mestiere. Non so mai cosa farò il giorno dopo”.

Hai mai la sensazione di affidarti a volte più al mestiere che al talento?
“Il talento senza mestiere è cieco; il mestiere senza talento è muto”.

È facile dire: ho entrambi?
“Non è facile, è molto raro. Facile è sbagliarsi su quello che possiedi”.

Fraintendere chi sei?
“È un dramma vero: pensare di essere artisti e non esserlo”.

Ti ha mai sfiorato il dubbio?
“No, anche perché ciò che faccio è sottoposto al vaglio degli altri. Non puoi dire sono un artista, se lo sei qualcuno deve riconoscerti.

Sembri molto pacificato.
“Tre mogli e sei figli mi hanno dato un’idea diversa del tempo”.

A che punto sei del tuo tempo?
“Ho la paura fottuta di perdere tempo, di non fare in tempo. Ho vissuto quattro quinti della mia vita e devo ancora fare tantissime cose. Vedo già l’altra sponda e mi preoccupo. Un amico mi disse: la vita, Oliviero, è come un barbecue, il fuoco è sempre più forte e la bistecca sempre più piccola”.

 

10.06.2016

source: repubblica.it

 

Categorie: intervista