OLIVIERO TOSCANI: «BENE IL TEMPO CON QUELLA FOTO CHI SI SCANDALIZZA E’ COMPLICE»
Postato il 04.07.2014 da write@toscani.com Commenti Commenti disabilitati su OLIVIERO TOSCANI: «BENE IL TEMPO CON QUELLA FOTO CHI SI SCANDALIZZA E’ COMPLICE»L’INTERVISTA:
«Chi si scandalizza non vuol vedere. E chi non vuol vedere è complice».
È il sillogismo «imperfetto» di Oliviero Toscani. Il riferimento è alla foto, atroce quanto la realtà che documenta, pubblicata sulla prima pagina de Il Tempo di ieri. «Avete fatto bene, bravissimi! », ha detto l’ideatore di numerose campagne fotografiche definite «shock» su temi sociali d’attualità commentando l’immagine dei 45 cadaveri di migranti nella stiva di un peschereccio. Recuperato nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum – È l’unico modo per far comprendere veramente la tragedia in atto».
La nostra iniziativa, però, ha attirato anche qualche critica. C’è chi ha sostenuto che non avremmo mai dovuto pubblicare quelle foto.
Lei che ne pensa?
«È una cosa che tutti dovrebbero vedere, è un olocausto e troppe persone fanno finta di niente. Queste sono le cose veramente gravi, non la nazionale italiana eliminata ai Mondiali. Dovremmo aspettare vent’anni, com’è avvenuto per Auschwitz? Non capisco questa mentalità: si dice “foto shock”.
Ma come? La realtà non provoca shock e la foto sì?». Perché questo accade, secondo lei?
«L’immagine è diventata più inguardabile della realtà. Ci mette davanti alle nostre responsabilità e noi non vogliamo che questo accada. Ci shocchiamo della nostra vigliaccheria…».
Forse ci sono anime troppo sensibili…
«Quelli che hanno una cosiddetta “anima sensibile” non sono civili, sono egoisti. Non vogliono sapere che cosa sta succedendo. Ma quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi indifferenti è una tragedia immane e io voglio esserne informato. Anche gli struzzi hanno un’anima sensibile…».
Molti anni fa ci fu un grande scandalo per la foto di una donna nuda e incinta messa in croce sulla copertina dell’Espresso.
È la stessa reazione dettata da un falso moralismo?
«Quella era una messinscena. La foto dei cadaveri nel barcone non è inventata, non è frutto di un fotoshop. È un documento della realtà che ci circonda. E io sono testimone del mio tempo, voglio sapere».
Noi giornalisti non dobbiamo temere di «traumatizzare» l’opinione pubblica?
«Il vostro dovere è documentare i fatti, sennò mi fate girare le palle… E non è colpa vostra se i fatti traumatizzano. L’eventuale fastidio dell’opinione pubblica si può tramutare in maggiore sensibilità verso il problema toccato. I lettori hanno diritto di essere informati. I benpensanti che hanno paura dello scandalo sono responsabili di non fare il proprio dovere».
Perché l’articolo scritto non ha gli stessi effetti dell’immagine?
«La scrittura puoi interpretarla. La foto è diretta e ti sbatte in faccia le tue responsabilità. Per fortuna esiste la fotografia, grazie ad essa ci rendiamo conto del male che l’uomo fa. Mi sarebbe piaciuto vedere le foto delle Crociate, o quelle delle gesta dei garibaldini durante la riunificazione d’Italia. Da quando c’è la fotografia, c’è la storia. E quello che è accaduto su quella barca appartiene alla storia. Le foto che avete pubblicato dovrebbero farle vedere a scuola, soprattutto ai figli dei leghisti…».
Cambierà mai questo modo di pensare?
«Quando saremo veramente civili, nessuna foto ci darà fastidio. Saremo in grado di guardare in faccia la realtà e di affrontare i problemi. Oggi la comunicazione è più importante di quello che accade davvero. Le persone non vogliono essere disturbate, mentre stanno sul divano a guardare la tv, da bambini che muoiono di fame. Devono seguire la partita di calcio, le polemiche su Prandelli, il salotto di Vespa. Oppure devono curare i loro cinquecento amici su facebook. Basta non vederli, quei bambini, e non esistono più».
Ha mai deciso di non pubblicare una foto perché troppo «forte»?
«Mai. Accadde a mio padre, che era reporter del Corriere. Doveva scattare delle foto di una trentina di bambini di una colonia morti su una barca saltata in aria per una mina ad Albenga, il Liguria. In quel periodo ero anch’io in colonia. Mio padre fece molte fotografie. Ma non riuscì a immortalare le immagini più crude. Rimpianse tutta la sua vita di non averlo fatto».
Maurizio Gallo