Corpi di donna e crisi da spot? Anche il creativo ora scopre l’impegno
Postato il 11.03.2013 da write@toscani.com Commenti Commenti disabilitati su Corpi di donna e crisi da spot? Anche il creativo ora scopre l’impegnoLa creatività risulta efficace solo quando è in grado di lasciare a bocca aperta. Come davanti a una nuova scoperta. La sua identità consiste nel rivisitare il sentito dire, trasformare realtà consolidate, generare nuovi orizzonti d’immaginario, creando e non sottostando sempre a quello collettivo». Non sono parole di un filosofo. Le ha scritte, per il blog del Corriere La 27 Ora (che si sta occupando ampiamente del tema), una giovane copy italiana, Vicki Iovinella, classe 1982. Parte da qui il viaggio nella pubblicità di domani. E la nostra inchiesta su come la comunicazione commerciale può contribuire alla nascita di una better society, una società migliore. Che non si tratti più soltanto di vendere prodotti lo ha chiaro in mente un’altra copy, ben più famosa: «La pubblicità è uno strumento di comunicazione potentissimo, come i film, i libri, l’arte», dice a Sette Susan Credle, capo dell’ufficio creativo del colosso americano Leo Burnett (per leggere l’intervista integrale e guardare i link). «Abbiamo l’opportunità e la responsabilità di diffondere idee e movimenti sociali che stanno muovendo i primi passi. Noi osserviamo da vicino la cultura e la società. Alcune volte, sembra che precediamo qualcosa, ma di solito è perché cogliamo subito i cambiamenti». La Credle cita vari esempi, il più interessante è forse quello sviluppato per Special K (qui il link) intorno all’immagine femminile: «Spesso le donne vivono come un fallimento l’incapacità di raggiungere un certo “numero”. Abbiamo creato qualcosa per dare loro il potere di decidere da sole cosa conta davvero». Nello spot sfilano donne di tutte le nazionalità, che si pesano, si misurano, provano vestiti. E scelgono un’altra via, altre parole: forza, orgoglio, possibilità, fiducia…
Autodisciplina. Sull’immagine della donna negli spot si discute da tempo. Con risultati non sempre condivisi. L’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria, emanazione di agenzie ed editori, sfodera con orgoglio le sue sentenze: sulle pubblicità interdette, donne seminude che dovrebbero “eccitare” i passeggeri d’aereo o sedute sul water per vendere vernici e pennelli, bambine lolite a pubblicizzare vestitini di noti marchi per teenagers, Adsl che “la danno a tutti”. «La pubblicità sessista va vietata…», mette subito in chiaro il segretario generale dello Iap, Vincenzo Guggino. Ma chi decide se una pubblicità è sessista o meno? Lo Stato in materia langue: l’Antitrust si occupa soltanto di pubblicità ingannevole e le Pari opportunità (il ministro Carfagna prima e poi Elsa Fornero) hanno firmato protocolli che di fatto delegano allo Iap il ruolo di “gendarme” sulla pubblicità di genere. Punto.
L’Istituto d’autodisciplina, da parte sua, è formato principalmente da giuristi chiamati a stabilire, in base alle segnalazioni ricevute, se una pubblicità “rispetta la dignità della persona” o viceversa presenta “forme di discriminazione”, di genere e non solo. «Non stiamo a sindacare se la percentuale di rughe è diminuita in tre settimane. Quello può farlo l’Antitrust. Noi abbiamo una delega in bianco che il mondo della pubblicità ci ha dato per sindacare l’aspetto “ideologico”».
«È un controllo che a mio parere va precluso allo Stato, per evitare nuove forme di censura», sostiene Guggino, che respinge le critiche di “lentezza”: «L’Antitrust impiega 6-8 mesi per i casi di ingannevolezza. Nel 73% dei casi il nostro Gran Giurì decide in 8-12 giorni, cui seguono 10 giorni in cui l’azienda si può opporre all’ingiunzione di desistenza».
Troppi, secondo Pasquale Diaferia, creative chairman di SpecialTeam e ideatore di alcune delle campagne più famose degli ultimi anni. «Il controllo su affissioni e arredo urbano dovrebbe essere lasciato ai sindaci, che rispondono direttamente ai propri cittadini. Per quanto riguarda gli spot, oggi i flight (passaggi) televisivi non sono più di tre mesi ma di dieci giorni: la campagna finisce molto prima che lo Iap si pronunci. Conclusione? In Italia c’è una gran quantità di organismi paraburocratici, come Agcom e Iap, che, invece di definire i limiti, paralizzano il mercato. Servono sistemi di controllo che permettano di intervenire velocemente, non in base a regole di un mercato di 30 anni fa. Quelle non funzionano più».
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Stereotipi. Ancora meglio sarebbe riuscire a imporre una nuova cultura nel mondo della comunicazione (e non solo commerciale). Il pubblicitario, in fondo, è un operatore sociale per definizione. Basti pensare agli Anni 60: gli italiani hanno imparato a lavarsi i denti, non perché glielo dicevano a scuola ma perché c’era la pubblicità dei dentifrici.
«Non si può pensare solo al business. Devo sempre domandarmi “qual è il modello che sto trasmettendo, quale il messaggio?”. Se vieni contattato da chi vende il sogno del gioco d’azzardo, per esempio, devi decidere se lo vuoi fare o no. Io ho deciso freddamente di no», conclude Diaferia, che ci segnala anche questa iniziativa del brand Dove sull’immagine della donna (qui sopra).
E’ orgoglioso invece di aver ideato lo spot per il Premio Immagini Amiche, presieduto dalla scrittrice Daniela Brancati, che venerdì scorso è riuscita a far firmare alle quattro principali associazioni di pubblicitari – Adci, Federpubblicità, Unicom, TP – una lettera di intenti con cui s’impegnano a “non realizzare più messaggi discriminatori o degradanti per le donne, basati sul genere e gli stereotipi”. Basterà?
Lucia Ruggerone, sociologa dell’Università Cattolica di Milano e membro del Comitato di controllo Iap, ammette che il sistema di controllo andrebbe migliorato – «ci sono tantissime segnalazioni e noi ci riuniamo una sola volta al mese» – pur dubitando che la burocrazia delle amministrazioni pubbliche possa essere più rapida. Piuttosto, anche lei indica una strada nuova: «Da parte del pubblico e del mondo accademico c’è una forte richiesta ai pubblicitari di assumere una maggiore responsabilità sociale e anche un ruolo di orientamento per rompere gli stereotipi. Un ruolo pedagogico che, però, viene perlopiù scartato dai pubblicitari, che hanno ancora un’idea quasi esclusivamente rivolta alla vendita. Mi è capitato di sentire la frase “ma la pubblicità non può educare”. Eppure ci sono già nella società molte spinte volte a cambiare la cultura dominante. La pubblicità dovrebbe raccoglierle ed enfatizzarle. E forse sarebbe utile creare un comitato super partes, estraneo alle aziende, che abbia una veste più istituzionale e sia composto da persone competenti: semiotici, sociologi, psicologi».
Che il vento sia cambiato, i pubblicitari peraltro l’hanno compreso bene. Il glamour spinto di certa moda come l’esibizione di una ricchezza sguaiata sono modelli da evitare in tempo di crisi. Anche la telefonia è passata dalle curve di Megan Gale degli Anni 90 all’ironia del pinguino Pino e di Elio e le Storie Tese senza grandi rimpianti.
Avanti i folli. È noto a tutti che è più facile catturare l’attenzione del pubblico con una donna, un cucciolo o un bambino. Ma forse sono finiti i tempi in cui bastava un bel seno o una farfallina per vendere qualsiasi cosa. La tendenza viene come al solito dall’America, dove hanno sede i quartier generali delle Big pubblicitarie. «Il nostro obiettivo è duplice», spiega ancora la Credle, «vendere prodotti e costruire un brand. Le grandi aziende degli Anni 20, 30 e 40 sentivano la responsabilità di sostenere la comunità. Quando ci allontaniamo da quello spirito, come spesso avviene in epoche di eccesso, la fedeltà al brand crolla. Il prodotto è la “valuta” di una relazione: se ci si limita alla vendita e all’acquisto, sarà una relazione molto breve. Oggi la corporate responsability è tornata al centro delle valutazioni aziendali anche perché la gente si aspetta che i brand facciano qualcosa in più di fornire un prodotto. Ho visto un bell’esempio di questo nel nostro ufficio di Beirut. Un brand che spinge gli adulti a fare la cosa giusta per la felicità dei propri figli: “staccare la spina” e focalizzarsi sulla famiglia».
La formula della nuova creatività è originale. In un’intervista al New York Times, la Credle ha ammesso di selezionare per il suo staff i più “eccentrici” o “difficili”. «Il business richiede perfezione ma la creatività spesso ha bisogno dell’opposto. A volte le persone che non si adeguano vengono licenziate, noi dobbiamo invece creare una cultura che permetta loro di fiorire e tirar fuori qualcosa di nuovo. Dobbiamo includere queste persone o non faremo passi avanti, la creatività non evolverà. Questo spiega perché lavorare a uno spot è così differente. E così divertente. La creatività è soggettiva, ma le migliori idee devono riuscire a toccare le persone sul piano emozionale. Che ti facciano arrabbiare, piangere, provare vertigini o voglia di ridere, che ti facciano male al cuore». Che ti facciano sognare in un domani e una società migliore.
Intervista a Oliviero Toscani
L’immagine della donna l’ha utilizzata davvero in tutte le salse. Ha cominciato la carriera di agent provocateur dei creativi italiani sdoganando il “lato B” in primo piano sui cartelloni pubblicitari negli anni Settanta: il “Chi mi ama mi segua” del micro-jeans avvolto sulle forme della modella Donna Jordan scandalizzò magistratura, chiesa, politica, perfino Pier Paolo Pasolini. Ed esaltò le giovani donne che trasformarono il marchio Jesus in un simbolo di rottura e contestazione. A quei tempi era più facile creare scandalo. Toscani però ha continuato a rompere tabù. Bianchi e neri sempre mescolati, leader mondiali che si baciano in bocca, suore, preti, anoressiche tutte ossa e sguardi perduti, fino alle dodici vagine, una al mese, piazzate su un calendario per vendere la “Vera pelle italiana conciata al vegetale” che ha suscitato aspre critiche tra le donne di tutte le età. Oggi ride. «Sì, le femministe sono state mie amiche e mie nemiche».
Al di là del femminismo, oggi si chiede di porre limiti al “sessismo” in pubblicità…
«Porre limiti è sempre sbagliato. E poi, chi li pone questi limiti? Il ministro della famiglia, forse? Il Papa o la Bonino? E perché mai dovremmo dare a qualcuno la patente di superiorità? L’uomo deve poter manifestare anche la sua demenza».
Quindi, via libera ai cartelloni più turpi?
«Logico, ci deve essere libertà di espressione e libertà di dire “quello è un cretino”».
La pubblicità non dovrebbe al contrario contribuire a creare una società migliore?
«La pubblicità precede i cambiamenti sociali, da sempre. La Cappella Sistina è la pubblicità della chiesa. Così come oggi i grandi quotidiani fanno la pubblicità al potere del nostro tempo. Poi c’è la pubblicità che racconta produzione e consumo. Produrre vuol dire lavoro, consumare vuol dire cultura. La pubblicità, come viene chiamata volgarmente, dovrebbe prendere atto di questa cosa».
E quindi?
«E quindi diventare non dico seria, ma impegnata».
Come, in un’epoca di crisi?
«La crisi ce l’abbiamo noi, all’interno. Non riusciamo a capire che il mondo sta cambiando. Allora lo chiamiamo crisi. Non è vero. Forse vivremo molto meglio domani».
Però senza soldi non si consuma, non si produce, lei non fa più pubblicità ai prodotti…
«Oggi si vendono prodotti nel modo più cretino, tradizionale, quello che ha mandato tutta l’economia in crisi, quello che fanno agenzie di pubblicità e ricerche di mercato».
Cosa suggerisce ai giovani creativi?
«I giovani creativi non esistono. Esistono i giovani. Qualcuno di loro farà qualcosa di creativo e qualcun altro no, perché è pigro, viziato, non ha il coraggio».
Cosa devono seguire se non il marketing?
«Il proprio istinto, forse da lì uscirà qualcosa di nuovo. Perché se seguono il marketing non faranno altro che rifare qualcosa che è già stato fatto. E questo non è progresso, non è economia e non è successo».
Lei oggi come descriverebbe la donna in una pubblicità, per esempio?
«Come si fa a generalizzare: ci sono le cretine e le intelligentissime. E ci sono tutte le barbie-doll della tv o dei giornali di moda. Le donne devono smettere di pensare che essere belle è più importante che essere interessanti. Non hanno ancora capito che la vera bellezza non è un fatto estetico. Non è colpa loro, tutto il sistema dell’informazione si basa sull’estetica della donna. Dovrebbe liberarsi da questo tremendo virus».
La pubblicità potrebbe aiutare?
«Deve. Io ho sempre cercato modelli di strada. E non ho mai spinto quella bellezza estetica omologata. Ma lei accende la tv e trova tutte quelle presentatrici gonfiate, con le labbra finte. Finché le donne avranno il complesso di “professione figa”, dove la loro intelligenza è inversamente proporzionale all’altezza dei loro tacchi, non se ne uscirà».